Dizionario sociale della psichiatria

Noi Matti

di Franco e Franca Basaglia (1971)
Copertina. Noi Matti: Dizionario sociale della psichiatria.
Questo abbozzo di dizionario della psichiatria vuole essere un’analisi critica della psichiatria come branca della medicina, e delle condizioni pratiche in cui si trovano ad agire i "tecnici" di questo settore specifico. Ciò che importa rilevare (e il discorso risulta di una tale ovvietà che lo si deve puntualizzare perché la realtà possa essere riscoperta in tutta la sua violenza) è che anche nel campo della salute si ripropone il meccanismo del privilegio: l’uomo nasce, si ammala e muore con le prerogative della propria classe. Nascere, ammalarsi e morire diventano tappe solo apparentemente comuni nella vita dell’uomo; mentre l’elemento determinante nello svolgersi di un carriera umana o di un’altra è sempre l’appartenenza alla categoria del privilegio o la sua esclusione.
Se è vero che nella nostra società si tende a livellare tutte le esperienze ad un unico comportamento comune socialmente controllabile, è anche vero che, al nostro attuale livello di sviluppo socio-economico, solo la classe privilegiata può permettersi di gestire in proprio la propria vita, la propria salute e la propria malattia, vivendole come proprie esperienze. Il potere contrattuale fra chi dà e chi riceve, anche se si tratta della prestazione di un servizio sanitario, è ciò che determina il modo di svolgersi di ogni esperienza e, quindi, ciò che determina ogni carriera umana: il pagante, il mutuato, il povero assistito dal comune hanno, nella malattia, carriere diverse che portano a evoluzioni spesso diverse della malattia stessa, e non solo in psichiatria. La malattia non è dunque un valore negativo assoluto, ma è sempre relativa al potere contrattuale del malato rispetto ai servizi che dovrebbero occuparsi di lui.
Il principale obiettivo della lotta contro le istituzioni psichiatriche, sviluppatasi in questi ultimi anni in Italia, consiste dunque nel denunciare il carattere della psichiatria come ideologia: cioè nel rivelare la sua funzione discriminatoria e classista, rivolta a fornire una copertura scientifica a delle contraddizioni sociali spesso estranee alla malattia.
Ma se la psichiatria si è rivelata un’ideologia, è possibile accettare la medicina, di cui la psichiatria fa parte, come "scienza neutrale", accontentandosi di inserire in questo contesto il malato mentale che finalmente sarà trattato come tale e curato? Il passo successivo dovrà essere l’individuazione "pratica" della medicina come ideologia, attraverso l’analisi del suo metodo basato esclusivamente sulla "terapia dall’alto". Esso si fonda infatti sulla radicale contraddizione fra "salute" e "malattia", dove la salute è ritenuta un valore assoluto, mentre la malattia un accidente oggettivabile dalla scienza. In questo processo di oggettivazione il malato si "separa" dalla propria malattia (quindi dal proprio corpo) ed è costretto a delegare al medico la difesa dalla malattia e quindi dal suo corpo stesso. Si ripropone in questo senso in medicina il processo di alienazione da sé e dalle proprie esperienze che favorisce lo sfruttamento e il dominio sull’uomo.
Alienazione MentaleAntipsichiatriaCartella ClinicaCase Di Cura PrivateComplessoComunità TerapeuticaConflittoContenzioneDevianteDiagnosiDiagnosi DifferenzialeFolliaGuarigioneImbecille, Cretino, IdiotaIncidenteLegge PsichiatricaLungodegenteManicomioMattoNevrosiNormaOspedale PsichiatricoPazziaPericolositàPerizia PsichiatricaPersonalità PsicopatichePsicanalisiPsichiatriaPsicofarmaciPsicosiPsicoterapiaRaptusReinserimento SocialeReparti ApertiSociale, PsichiatriaSocioterapiaStigmatizzazioneTerapie PsichiatricheTest MentaliTrentatréVortice Degli InganniViolenza Istituzionalizzata

Alienazione Mentale

. Termine con cui si è inteso definire la condizione dell’ "essere fuori di sé" in un periodo storico in cui il soggetto di questa alienazione continuava a far parte del corpo sociale. Le interpretazioni demoniache o magiche della "pazzia" (vedere la relativa voce di questo dizionario) non sancivano la disumanità dell’alienato quanto la presenza del demoniaco e del disumano nell’uomo.
L’assorbimento dell’alienato nell’ambito della patologia generale segna l’inizio di una nuova scienza: la "psichiatria" (v.) costantemente alla ricerca del proprio oggetto, su un terreno e con strumenti inadeguati alla realtà che tenta di scoprire (v. "Trentatré"). L'alienato scompare cioè come problema contraddittorio dell’umano, per diventare agli occhi del medico il "malato mentale" e agli occhi della società quell’ "al di là dell’umano" da cui ci si deve salvare. Per questo il problema dell’alienazione mentale è diventato un problema di difesa sociale, dove l’alienazione è ridotta a un fenomeno curabile soltanto con l’internamento. La psichiatria si configura a questo punto come la scienza della « patologia della diversità ».
Con l’inserimento della dimensione "sociale" (v.) nella psichiatria sembra che tale scienza tenda a rivedere globalmente l’oggetto della propria ricerca, in rapporto all’ambiente familiare, lavorativo eccetera. La malattia mentale sta dunque rientrando nella comunità da cui era stata separata e la psichiatria sembra sempre più incline ad occuparsi della « patologia della totalità ». Ma se il sociale non può essere inteso solo come un insieme di rapporti interpersonali, di relazioni e reazioni a livello psicologico e deve invece essere considerato anche un insieme di rapporti sociali di produzione, l’alienazione mentale torna a imporsi come un fenomeno che coinvolge l’uomo nella sua totalità. Cioè l’uomo contemporaneamente alienato dalla malattia e dalla paradossale logica del capitale, che fa passare per umano, naturale e irreversibile ciò che contribuisce al proprio sviluppo: l’alienazione e la disumanizzazione dell'uomo.

Antipsichiatria

. Negli ultimi anni si sono sviluppati in diversi paesi movimenti psichiatrici tendenti a distruggere la vecchia immagine della malattia mentale. Pur partendo da questo denominatore comune e arrivando a una prassi professionale analoga, ciascun gruppo si fonda su presupposti teorici diversi.
Il gruppo dell’antipsichiatria inglese, di cui Ronald Laing e David Cooper sono i principali rappresentanti, rifiuta l'idea tradizionale della follia. La follia viene anzi considerata un valore positivo, in quanto negazione esplicita dell’attuale società, ritenuta responsabile dell’instaurarsi di molte forme morbose. Per questa strada si tenta di spiegare la malattia mentale come il rifiuto di una vita non vivibile; e i sintomi della malattia, restando collegati al contesto in cui si manifestano, risultano meno incomprensibili di quanto la psichiatria tradizionale si ostini a ritenere. Meno politicizzato del movimento antipsichiatrico italiano, quello britannico opera soprattutto a Londra attraverso una trama capillare (network) extraistituzionale, nel tentativo di offrire un’alternativa al manicomio.
Siamo tuttavia in una fase di capovolgimento: alla devianza si contrappone il suo rovescio, ossia la malattia intesa come un valore; la crisi psicotica viene interpretata come un segno di salute; la pazzia viene integrata nella società dopo una secolare segregazione; si convive con la follia dopo averla totalmente esclusa. Ma i limiti dell’antipsichiatria sono gli stessi contro cui cozza la psichiatria: la struttura della società e gli strumenti del potere sull’uomo, sano o malato.

Cartella Clinica

. Più che un documento in cui risulti la storia del paziente, sembra spesso una pezza giustificativa che l’ospedale prepara per motivarne il ricovero. La formulazione della diagnosi illumina di un colorito particolare ogni atto o avvenimento della vita del paziente, mettendo in evidenza soltanto gli aspetti che possono essere interpretati sotto questa luce. Nella cartella clinica non solo viene ricostruita (a posteriori) la malattia ma anche la storia del paziente, una storia che sembra sia stata vissuta soltanto in funzione di quella malattia e, soprattutto, in funzione del ricovero.
Come il malato costruisce la storia della propria vita selezionando gli avvenimenti più lusinghieri per presentare agli altri un’immagine di sé accettabile, così la cartella clinica sembra rivolta a individuare gli elementi più negativi, i fallimenti più nascosti, gli avvenimenti più vergognosi che abitualmente l’individuo riesce a celare; e ciò per costruire un quadro del malato perfettamente rispondente all’ipotesi diagnostica. Gli stessi elementi collezionati nella cartella clinica di un malato istituzionalizzato restano fatti privati personali per chiunque non entri in una istituzione psichiatrica. All’internato invece non resta più niente di personale e meno ancora di privato. E la cartella clinica, con l’elenco delle sue "stranezze" e dei suoi "errori", diventa perciò un nuovo strumento antiterapeutico che si aggiunge agli altri, aiutando a fissarlo in quella sua immagine di pazzo, ormai pubblica e quindi irreversibile.

Case Di Cura Private

. Istituti previsti anche dalla "legge" (v.) sugli alienati, che consentono da un lato ai malati mentali abbienti o convenzionati con mutue privilegiate di sfuggire alla "stigmatizzazione" (v.) del ricovero manicomiale; e dall’altro ai proprietari e gestori di realizzare cospicui guadagni attraverso l’assorbimento del malato mentale nel ciclo produttivo.
Quando l’ospite di una casa di cura privata esaurisce le sue risorse economiche o supera il limite di 180 giorni di malattia riconosciuto dalla mutua, diventa automaticamente "pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo" e bisognoso di ricovero coatto in "manicomio" (v.).

Complesso

. Termine d’uso corrente, derivato dal linguaggio analitico (avere un complesso, essere complessato eccetera) che è andato gradualmente perdendo valore presso gli psicanalisti (vedi "psicanalisi"), se si eccettuano le espressioni e i concetti di « complesso di Edipo o di castrazione », ormai diffusi anche nell’uso quotidiano (con questo Edipo..., eccetera).
Si tratta comunque di un insieme organizzato di rappresentazioni e ricordi a forte colore affettivo, a livello parzialmente o totalmente inconscio.

Comunita' Terapeutica

. Nata in Inghilterra, il paese che conta una lunga tradizione nei tentativi di rinnovamento delle istituzioni psichiatriche, si fonda essenzialmente, secondo i principii di Maxwell Jones, suo più autorevole rappresentante, sull’uso della interazione di gruppo come forma di apprendimento sociale. Con essa si tenta una cogestione comunitaria della malattia attraverso il reciproco sprigionarsi di valenze terapeutiche fra medico, malato e tutti gli altri componenti della comunità. L’accento viene posto qui sul momento pratico-organizzativo; quindi sulla gestione della vita istituzionale come messa in discussione pratica del sistema gerarchico, autoritario, custodialistico, tipico delle vecchie organizzazioni manicomiali.
Ma nel momento in cui la comunità terapeutica si costruisce in nuovi dogmi e nuovi miti, questo riconquistato margine di libertà viene da capo a mancare. La nuova istituzione cioè torna a chiedere al malato di identificarsi in una definizione della malattia diversa da quella precedente ma altrettanto vincolante e irreversibile. E anche qui ci si trova di fronte a un rovesciamento: fine della comunità terapeutica diviene l’adattamento del "malato guarito" alla stessa situazione sociale da cui era partito. Una volta smantellata la struttura manicomiale tradizionale e resa possibile la riabilitazione del malato nella istituzione, come non riconoscere nella istituzione "buona" la medesima funzione di controllo che caratterizzava l’altra?
In questo modo, la comunità terapeutica rischia di ridursi a un pur necessario strumento di umanizzazione del manicomio, il cui compito comunque seguiterebbe a essere quello di affermare la validità di una "norma" (v.) definita e imposta dall’esterno, oltre i confini di competenza tecnico-specialistica degli psichiatri e dei loro collaboratori.

Conflitto

. Concetto derivato dalla "psicanalisi" (v.). Se ne parla quando in un soggetto si oppongono esigenze interne e contrarie. Il conflitto può essere "manifesto" (per esempio fra un desiderio e un’esigenza morale o fra due sentimenti contrastanti); o "latente", nel qual caso si esprime in modo deformato e può manifestarsi attraverso sintomi, disturbi della condotta o turbe del carattere. Tuttavia il conflitto è costitutivo dell’essere umano, come espressione della contraddizione insita nell’uomo. La psicanalisi ha messo in evidenza e teorizzato il problema della contraddizione. Le successive varie scuole psicanalitiche invece hanno creato delle tecniche volte a risolvere il sintomo, come espressione del conflitto, non attraverso la presa di coscienza della contraddizione bensì attraverso l’eliminazione di uno dei poli di essa.

Contenzione

. Pratica manicomiale mediante la quale il malato "agitato, furioso o incoerente" viene "assicurato" e "protetto" al fine di prevenire gli eccessi della follia di cui soffre. La "legge" (v.) ne prevede l’applicazione secondo canoni rigidamente fissati dai diversi ruoli gerarchici che costituiscono la piramide manicomiale.
La contenzione crea "qualche inconveniente". Recentemente si è venuti a conoscenza di casi di persone morte nel letto di contenzione a Varese e a Torino. Ma quando lo psichiatra ordina che un malato mentale venga contenuto, è la scienza che avalla e giustifica questo suo atto, anche se esso è esplicitamente una dichiarazione di impotenza.
I recenti progressi della psicofarmacologia hanno ovviato il fenomeno degli eccessi della follia e di conseguenza quello degli eccessi della contenzione. Tuttavia gli "psicofarmaci" (v.) da importanti mezzi terapeutici possono diventare, nelle nostre istituzioni, nuovi mezzi di contenzione chimica più che strumenti selettivi di cura, se sono usati solo come difesa e giustificazione dell’istituzione.

Deviante

. Il termine è stato importato nella nostra cultura come astratta elaborazione ideologica di un problema altrove reale. A livelli socioeconomici diversi corrispondono forme diverse di definizioni culturali: il problema definito con questo termine resta da noi perciò patrimonio di una élite culturale ristretta e il termine stesso si riduce a una specie di ammiccamento fra privilegiati capaci di decifrare un messaggio segreto e di scoprirvi riferimenti in chiave.
Nella nostra cultura il problema del deviante, ossia di colui che devia dalla "norma" (v.), resta affidato alla competenza della medicina o della magistratura, le quali riescono ancora a spiegarlo e a controllarlo attraverso le definizioni di "personalità psicopatica" (v.) o di delinquente.
Nelle culture di quei paesi (generalmente più progrediti del nostro) nei quali l’ideologia della diversità non è più sufficiente a controllare in istituzioni chiuse le devianze che pongono in discussione la norma, il problema viene trasferito anche alla competenza della sociologia. Si tende così a creare nuove forme di organizzazione sociale aventi lo scopo di garantire il dominio e il controllo del numero sempre crescente di marginali ottenuto, attraverso i meccanismi di esclusione della produzione, nelle fasi avanzate di sviluppo del capitale. Una recente statistica americana, presentata in una sua relazione dallo psichiatra sociale Jurgen Ruesch, calcola per esempio nel 65 per cento del totale della popolazione statunitense la quota dei disadattati o devianti.

Diagnosi

. Momento in cui il medico trae le conclusioni del suo lavoro interpretativo sulle condizioni del paziente e ne deriva un adeguato indirizzo terapeutico.
In psichiatria, non potendo rifarsi all’obiettività dell’esame clinico, ogni interpretazione della malattia mentale (da quella organicistica a quella psicogenetica o sociologica) deve assumere, come valore assoluto infranto dalla condotta "deviante" (v.), il limite di "norma" (v.) di volta in volta fissato dalla stessa natura dell’interpretazione: la norma organica, quella psichica e quella sociologica.
In questo senso lo psichiatra si trova a costruire il suo concetto assoluto di malattia sulla base di una definizione relativa del concetto di norma.
La diagnosi si riduce quindi per lo più a un puro giudizio di valore da cui trarre misure e sanzioni che non possono avere carattere terapeutico, dato che ci si limita allo smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è. La psichiatria tradizionale, fondandosi soltanto sul suo bagaglio semiologico e facendo riferimento a questo concetto puramente relativo di norma, si trova cioè impotente a decifrare il proprio oggetto. Un medico generico, per esempio, può chiedere al paziente di pronunciare la parola "trentatré" per compiere un determinato rilievo polmonare. Ma lo psichiatra non dispone di un eguale strumento. Il dramma dello psichiatra è di non essere ancora riuscito a trovare il suo "trentatré".

Diagnosi Differenziale

. Qual è la differenza fra un nevrotico, uno psicotico e uno psicopatico? Per lo psicotico 2 + 2 fanno indifferentemente 4, 6, 10, eccetera, a seconda del grado del suo rapporto con il reale. Per il nevrotico 2 + 2 fanno 4, e il fatto gli provoca uno scoppio d’ansia per il suo instabile rapporto con il reale. Per lo psicopatico 2 + 2 fanno sempre 4, ma ciò gli provoca sovente una rabbia antisociale.

Follia

. Termine dotto col quale si definisce in modo aulico il concetto volgarmente espresso dal termine "pazzia" (v.) (v. anche: "alienazione mentale").

Guarigione

. Nel caso della malattia mentale, del cui processo morboso è difficile stabilire l’inizio, il termine guarigione è puramente convenzionale. Abitualmente, serve per indicare l’avvenuto riadattamento del paziente alle regole del gruppo sociale cui egli appartiene. Guarire significherebbe insomma ridurre l’esperienza della malattia a un comportamento comune, definito aprioristicamente sano.

Imbecille, Cretino, Idiota

. Campionario diagnostico col quale, in neuropsichiatria infantile, vengono etichettati "scientificamente" alcuni tipi di bambini la cui evoluzione psichica è ritenuta al di sotto della norma. Queste voci sono entrate nel linguaggio comune, offrendo strumenti di stigmatizzazione empirica alla conversazione quotidiana (Io non sono un imbecille, tu sei un cretino, ci considerano tutti idioti, eccetera).

Incidente

(fuga, omicidio, suicidio, eccetera). Qualsiasi incidente avvenga nella istituzione psichiatrica, viene abitualmente imputato alla malattia, chiamata in causa come unica responsabile della imprevedibilità del comportamento dell’internato: la scienza, nel definire il malato incomprensibile, offre cioè allo psichiatra lo strumento per deresponsabilizzarsi nei confronti di un paziente che, per legge, egli dovrebbe controllare e custodire.
Responsabile di fronte alla società che gli delega il controllo dei comportamenti deviarti (un controllo che non ammette, a differenza di altre specialità, rischi e fallimenti), lo psichiatra non fa altro che trasferire la responsabilità di tali comportamenti nella malattia, limitandosi a ridurre al minimo la possibilità di azione del malato, trasformato in un oggetto all’interno di una istituzione, il manicomio, che ha il compito di prevedere lo imprevedibile. L’incomprensibilità di un atto toglie ogni responsabilità a chi vi assiste o all'ambiente in cui esso si compie, dato che definendolo come un atto "malato" si chiama in causa soltanto l’impulso abnorme e incontrollabile connaturato con la malattia.
Nel caso dell’istituzione chiusa, di tipo custodialistico tradizionale, scopo primario è sempre quello dell’efficienza dell’organizzazione: il malato è un oggetto all’interno di un sistema nelle cui norme e regole deve identificarsi. E’ dunque l’istituzione che, proponendosi come una realtà priva di alternative e di possibilità personali, dà al ricoverato le indicazioni verso l’atto che si presume egli debba compiere. In questa situazione coatta, dove tutto è controllato e previsto in funzione di ciò che non deve accadere, la libertà non può essere vissuta che come l'"atto proibito", impossibile ad attuarsi, in una realtà che vive solo per prevenirlo. Lo spiraglio di una porta aperta, una stanza incustodita, una finestra socchiusa, un coltello dimenticato sono l'invito esplicito a un'azione auto o etero distruttiva per per prevenire la quale esiste l'istituzione. Dove non ci sono alternative, l'unico futuro possibile è la morte, come rifiuto di una condizione di vita invivibile, come protesta al grado di oggettivazione in cui si è ridotti, come l'unica illusione possibile di libertà, come l'unico progetto possibile. Ed è troppo facile identificare queste motivazioni con la natura della malattia, come la psichiatria classica ci ha insegnato.
L'unica responsabilità che l'istituzione concede all'internato è dunque quella dell'incidente, che essa si affretta a trasferire nel malato e nella malattia, rifiutandone ogni legame e partecipazione. Il ricoverato che, durante la lunga degenza (v.: "lungodegente"), si è trovato spogliato e deresponsabilizzato in ogni movimento, si ritrova completamente e automaticamente responsabile di fronte al suo unico atto di libertà, che quasi sempre coincide con la morte.
In questo senso l'incidente (di qualunque natura esso sia) non è che l'espressione del vivere la regola istituzionale fino in fondo, portando alle estreme conseguenze le indicazioni che l'istituzione fornisce al malato.
Nel caso di un'istituzione aperta, la finalità globale dell'istituto è il mantenimento della soggettività del ricoverato, anche se la cosa può andare a scapito dell'efficienza generale dell'organizzazione. In questa realtà, la libertà diventa norma e il degente si abitua a usarla. Ma perché ciò avvenga è necessario che tutta l'istituzione (cioè i diversi ruoli che la compongono) sia interamente coinvolta e presente in ogni momento e in ogni atto, come sostegno materiale e psicologico del malato. In questo contesto l'incidente non è più il tragico risultato di una mancata sorveglianza, ma di un mancato sostegno da parte dell'istituto. La porta aperta diventa una indicazione per una presa di coscienza sul significato della porta, cioè della separazione, dell'esclusione di cui i malati sono oggetto in questa società. L'ospedale agisce stimolando la presa di coscienza da parte del malato di essere un escluso reale: ciò che è stato fatto di lui e il significato sociale che ha avuto l'istituzione in cui è stato rinchiuso. Che significato ha l'incidente ín questo contesto? Un malato che può venire dimesso e che si trova rifiutato dalla famiglia, dal posto di lavoro, dagli amici, da una realtà che lo respinge violentemente come uomo di troppo, che cosa può fare se non reagire contro chiunque abbia per lui la faccia della violenza di cui è oggetto? In questo processo chi può, onestamente, parlare solo di malattia; e di chi sono le responsabilità più dirette?

Legge Psichiatrica

. L’insieme delle norme giuridiche (approvate nel 1904 e tuttora vigenti) che stabiliscono l’esclusione totale dei malati di mente mediante il loro isolamento in "manicomio" (v.). Cardine della legge è il principio della custodia dell’alienato, intesa come privazione della personalità umana sia in linea di fatto (attribuzione del malato a una istituzione totale che lo trasforma in oggetto), sia in linea di diritto (trasferimento della capacità giuridica ad altra persona, il tutore, attraverso l’ "interdizione" (v.). La custodia è abbinata alla cura, ma l’attuazione della prima in modi coercitivi (paragonabili alla carcerazione ma a un livello ancora deteriore) esclude la seconda.
La preoccupazione della legge non è dunque diretta alla cura della malattia o alla prevenzione, di cui non si fa neppure cenno, bensì e unicamente a proteggere la società contro la "pericolosità" (v.) dell’alienato e contro "il pubblico scandalo" del suo comportamento. Il punto di riferimento rimane così esterno alla malattia ed è costituito dal riflesso delle concezioni correnti (ossia imposte dalla classe dominante) in materia di moralità e di ordine pubblico.
In coerenza con tutto questo, l’autorità di pubblica sicurezza, la famiglia, "qualunque interessato" sono i giudici preliminari del ricovero. La decisione finale spetta al magistrato, il quale si limita ad appropriarsi acriticamente del parere dello psichiatra. Si attua così una mediazione giudiziaria che costituisce un capolavoro di ipocrisia giuridica: a un organo apparentemente neutrale e irresponsabile, ma sostanzialmente espressione della classe dominante, è demandata l’applicazione del marchio della pazzia, con evidente sollievo per i reali artefici dell'esclusione.
La legge attribuisce un potere carismatico allo psichiatra, arbitro indiscusso di ricoveri, dimissioni, trattamenti terapeutici, adozione di mezzi coercitivi. Ma al tempo stesso gli garantisce lo scarico di responsabilità, in basso verso gli infermieri che rispondono dei malati loro affidati; in alto verso il giudice che avalla le sue decisioni.
La legge psichiatrica è oggetto di progetti di riforma. Un passo è stato compiuto nel 1967 con la previsione del ricovero volontario accanto al ricovero coattivo. Si è fatto in modo cioè che il malato potesse formalmente decidere da solo la propria esclusione sociale. Sono previsti passi successivi, che dovrebbero abbattere gli aspetti più medievali e ripugnanti del sistema manicomiale. Non è previsto un mutamento di fondo che potrebbe incidere radicalmente nella trasformazione dell’assistenza psichiatrica: il riconoscimento della malattia di mente come malattia sociale. (Giangiulio Ambrosini).

Lungodegente

. Termine tecnico che sostituisce la vecchia definizione di "cronico" per il malato mentale da anni "istituzionalizzato" (v.) nel "manicomio" (v.). Con questa denominazione si presume di dare nuova dignità al ricoverato, conservandone tuttavia intatto il ruolo e il destino. Qualcosa di analogo all’operazione con cui si chiamano netturbini gli spazzini, agenti di custodia i secondini, necrofori i becchini.

Manicomio

. Deposito dove vengono inviati per il popolo i pazzi, per gli intellettuali i folli e dove, per i medici, vengono custoditi e curati i malati di mente. Per il pazzo, il folle, il malato di mente si tratta di un’istituzione totale, chiusa, oppressiva. dove vige la regola carcerario-punitiva, la cui finalità è la lenta eliminazione del proprio contenuto. Il manicomio è costituito da una piramide gerarchica che vede all’apice i medici con a capo il direttore, poi gli infermieri e alla base i malati. Tutti subiscono, anche se a livelli diversi, lo stesso processo di "istituzionalizzazione" (v.) che cristallizza i ruoli e congela i rapporti, dividendo l’insieme in corpo curante e pazienti: cioè superiori e inferiori, dominatori e dominati.
Il fatto che gli internati dei nostri manicomi appartengano tutti a un’unica classe (il proletariato e il sottoproletariato) testimonia l’esistenza di una doppia psichiatria che ricorre a definizioni scientifiche e sanzioni pratiche diverse, a seconda delle condizioni sociali ed economiche del paziente. In questo senso la funzione delle istituzioni manicomiali si chiarisce in una esplicita azione di circoscrizione e di controllo degli elementi di disturbo sociale, dove la malattia ha un gioco molto marginale.

Matto

. Termine d’uso comune per indicare gli affetti da "pazzia" (v.).

Nevrosi

. Nella definizione classica, la nevrosi è ritenuta un disturbo della personalità, caratterizzato dall’ansia come elemento determinante. Ma da quando l’ansia è diventata di proprietà della psichiatria, l’uomo "normale" non può esteriorizzare le sue emozioni senza essere definito nevrotico: la distanza fra salute e malattia in questo caso viene a cadere, tanto che l’essere nevrotico sembra diventato uno stato caratteristico dell’uomo normale.
Tale stato di nevrosi universale è di solito giustificato con la tensione provocata dalla vita "moderna". Ma se i limiti di "norma" (v.) sono definiti esclusivamente in base a un concetto di produttività alienata, l’uomo, sano o malato che sia, difficilmente riesce a identificarsi nell’Io ideale che gli viene proposto. Egli è allora costretto a chiudersi nel conflitto con se stesso, alla ricerca continua di questa identificazione. Quando i margini di libertà individuale sono ristretti e i modelli in cui identificarsi sono ridotti in stereotipi rigidamente prestabiliti, la società aumenta il margine di tolleranza nei confronti dell’ansia provocata dalla mancata identificazione in quei modelli. E ciò perché l’ansia stessa risulta socialmente controllabile, come sintomo di norma-malattia. In questo senso, la differenza fra il nevrotico e l’uomo cosiddetto normale è solo quantitativa, tanto che, d’accordo con Ronald Laing, potremmo includere fra le diverse diagnosi psichiatriche anche quella di "stato di uomo normale".

Norma

. Complesso di regole che definiscono i valori di una data società in rapporto al tipo di credenze, organizzazione sociale, livello economico, sviluppo tecnologico-industriale che la caratterizza. Si tratta di un insieme di valori relativi che acquistano peso e significato assoluti solo nel momento in cui vengono infranti (v.: "Deviante"). Essi si traducono cioè in norme giuridiche deputate a sancire la situazione in atto. Di conseguenza, sanciscono il sistema di valori della classe dominante quindi il privilegio della classe che stabilisce i limiti di norma rispetto all’altra, che li subisce. Per la psichiatria italiana la norma è stabilita dalla "legge" (v.) sui manicomi e sugli alienati, del 1904.

Ospedale Psichiatrico

. Eufemismo per "manicomio" (v.). La terapeuticità implicita nel termine è annullata dall’impossibilità di riabilitare persone inabili, per una società che non ha bisogno di persone riabilitate.

Pazzia

. Termine d’uso comune con il quale vien definito chi si vuole escludere dal consorzio sociale. (Esempi: cose da pazzi, ma tu sei pazzo, uscire pazzi). Tale termine, di comprensione universale, è invece bandito dal gergo scientifico ufficiale che preferisce sostituirlo con quello apparentemente meno stigmatizzante di malato di mente, termine che conserva la medesima funzione emarginante non riuscendo lo psichiatra a uscire dalla adialetticità della scienza cui fa riferimento.

Pericolosita'

. In nome della presunta o reale pericolosità del malato mentale esistono i manicomi, creati a difesa della cosiddetta società libera. Il concetto di pericolosità deriva direttamente da quello di incomprensibilità con cui la psichiatria dichiara la propria impotenza di fronte a malati mentali che non ha saputo curare, né comprendere. Ciò che dovrebbe essere una saggia e onesta accettazione dei propri limiti di fronte a un problema, si tramuta in pratica in una suddivisione manichea fra quello che si comprende e che diventa buono umano giustificabile, e quello che non si comprende e diventa pericoloso imprevedibile osceno. L’istituzione psichiatrica, fondata su questo pregiudizio dell’imprevedibilità e della pericolosità della malattia mentale, proponendo al malato una realtà priva di alternative e di un futuro, dà al ricoverato le indicazioni verso l’atto pericoloso che si presume debba fare. Dove non esiste futuro, l’unico progetto possibile è l’annullamento, così nell’istituzione come nella realtà esterna dove l’uomo senza alternative, sano o malato di mente, riconosce la morte propria o altrui come l’unico atto possibile in una realtà in cui non trova posto, (v. "Incidente").

Perizia Psichiatrica

. E’ la delega data dal giudice allo psichiatra perché decida se l’imputato può essere sottoposto a processo o essere senz’altro inviato in manicomio. Il verdetto dello psichiatra resta senza appello e costituisce una vera e propria deroga di fatto al principio del giudice naturale. La firma, come sempre, è dell’autorità giudiziaria, il contenuto è del tecnico. Ed è un contenuto particolarmente grave, se affermativo di malattia mentale, perché sostituisce alla reclusione in carcere la restrizione in un manicomio giudiziario a tempo indeterminato. Con l’assurdo che se il malato guarisce per avventura prima di un tempo minimo fissato dalla legge, non può uscire dal manicomio prima della scadenza del termine legale. Né può godere di amnistie o di condoni od ottenere la grazia, perché il manicomio non è reclusione, è "misura di sicurezza".
La perizia non attribuisce soltanto ampi poteri allo psichiatra, ma gli fornisce notevoli vantaggi. Essa rende economicamente, dà prestigio se legata a casi giudiziari clamorosi, crea un legame di solidarietà con il giudice che difficilmente si potrà contraddire indagando penalmente sui metodi di gestione manicomiale del suo perito psichiatra di fiducia. E infine non impegna, perché l’imputato finirà in un manicomio giudiziario e non sarà motivo alcuno di fastidio per lo psichiatra che non lo vedrà più nel proprio manicomio. (Giangiulio Ambrosini).

Personalita' Psicopatiche

. Secondo la definizione dello psichiatra Schneider, si tratta di « persone che soffrono e fanno soffrire gli altri ». E’ evidente che tale definizione si stacca da un concetto puramente diagnostico per esprimere un giudizio di valore in cui l’abnorme viene riferito a uno schema di valori medici, psicologici e sociali accettato come naturale e irriducibile, mai come qualcosa di legato al sistema sociale di cui l’individuo fa parte.
Dalla classificazione che alcuni continuano a fare degli psicopatici, ciò che risulta ancora una volta essenziale è la "stigmatizzazione" (v.) di chi devia dalla norma; stigmatizzazione ottenuta attraverso giudizi di valore che mettono a fuoco l’immoralità e la dissolutezza. Qualunque cosa faccia lo psicopatico è sempre "sbagliata", perché il giudizio precede ogni sua azione come un marchio di fabbrica: se un atto è sbagliato, è sbagliato anche il suo contrario. L’errore iniziale è non avere accettato le regole del gioco: le motivazioni del rifiuto possono essere di natura diversa ma non hanno peso sul giudizio che se ne formula. Ed è esprimendo giudizi di questa natura che si arriva, in molti processi penali e civili, alla "perizia psichiatrica" (v.).

Psicanalisi

. Disciplina fondata da Sigmund Freud. Consiste in un metodo di indagine e in una tecnica psicoterapeutica aventi lo scopo di portare a livello di coscienza contenuti conflittuali ricchi di carica energetica, rimossi nella sfera inconscia, interpretando espressioni verbalizzate liberamente, sogni, fantasie, desideri, azioni e comportamenti del soggetto da analizzare o da curare.
La tecnica psicanalitica è caratterizzata dall’atto interpretativo del terapeuta, rivolto, in particolare, alla indagine del transfert del paziente. Il nevrotico vive, nel rapporto analitico, la mescolanza spesso contraddittoria di forti sentimenti positivi e negativi legati a ricordi ed esperienze della vita infantile, vissuti nella analisi come intensamente attuali e trasferiti sulla persona dello psicanalista. Queste tecniche consentiranno al paziente di prendere coscienza dei propri "conflitti" (v.), di sciogliere i legami da questi dipendenti e di tornare, guarito, alla vita impossibile brutale e assurda che tutti conosciamo. Se questa vita lo schiaccerà, vuol dire che l’analisi non è stata condotta in modo soddisfacente, che l’Io del soggetto non è divenuto abbastanza forte e che bisognerà ricominciare tutto da capo, eventualmente cambiando psicanalista.
La durata di una analisi è varia: alcuni anni, alcuni lustri o tutta la vita. In quest’ultimo caso si tratta, per definizione, di una analisi infinita, nella quale, come le parallele, paziente e analista non si incontrano mai. L’analisi infinita dipende anche dal potere economico del paziente: se le risorse di questo, a un certo punto, si estinguono, si parlerà, in tal caso, di una analisi tendenzialmente infinita ma interrotta per cause di forza maggiore.
Bisogna distinguere tra psicanalisi e ideologia psicanalitica. La prima è una cosa seria. L’ideologia psicanalitica tende al perfezionismo asettico e a una liturgia rassicurante e conservatrice. Essa vorrebbe interpretare fenomeni di disagio individuale e collettivo attraverso un cifrario esoterico che copra le contraddizioni che li sottendono, riferendo al passato conflittuale del singolo sofferenze che hanno ben altra origine; spesso attraverso la sbrigativa ricerca di capri espiatori (padre, madre) da cui tutto dipende, e con la proposta conclusiva di una pseudointegrazione sociale.
L’apparente campo di azione della psicanalisi è diventato sempre più vasto, specialmente attraverso l’intensa opera di volgarizzazione persuasiva di alcuni epigoni di Freud. Di psicanalisi parlano i giornali maschili, femminili e neutri. Nello stesso tempo, i risultati terapeutici sono divenuti sempre meno significanti, dato che le istanze sociali aumentano il loro peso repressivo permeando sempre più sottilmente le relazioni interpersonali e familiari. In altri termini, gli psicanalisti sono chiamati a negare, con un intervento tecnico rituale, quei disturbi che la società intensamente alimenta. Essi dovrebbero proporre, affiancandosi alla ideologia che li investe di un potere non indifferente, una armonica pseudointegrazione secondo valori collaudati come funzionali e secondo gerarchie che, rispettate, promettono rassicurazione e aproblematicità.
In tal modo si offrono due diverse prospettive per due diversi tipi di pazienti, in relazione al valore fondamentale: il successo. Un paziente privilegiato, abbiente e psicanalizzato potrà ottenere dalla vita affermazione e successo a spese degli altri. Un paziente non privilegiato, non abbiente e psicanalizzato potrà soffrire di meno lavorando per la affermazione e per il successo di un altro. (Michele Risso).

Psichiatria

. E’ la scienza che studia le malattie mentali, cercandone la terapia. In realtà, essa esprime l’atteggiamento della società di fronte ai problemi della follia.
Nella storia della psichiatria intesa in questo senso si distinguono tre fasi fondamentali, che corrispondono a tre momenti di crisi e quindi di rinnovamento. Queste tre crisi hanno tutte la stessa origine: si sono determinate ogni volta che la psichiatria si è illusa di aver trovato un metro esatto per misurare la mente dell'uomo e le sue malattie. Ma ogni volta questo metro si è trasformato in un concetto astratto che non teneva più conto della realtà umana dell’oggetto della propria indagine.
Le tre fasi possono essere così schematizzate:

  1. Il momento dell’individuazione della malattia mentale come entità separata e separabile dalla delinquenza e dal peccato; momento che si traduce, alla fine del ’700, nella liberazione dei folli da parte del Pinel e nella separazione del carcere dal manicomio.
  2. Il momento dell’individuazione dei meccanismi inconsci dell’uomo e del gioco delle interazioni psichiche; momento che risale al pensiero di Freud il quale, pure avendo sconvolta l’intera struttura della psichiatria, non ha portato mutamenti radicali nelle istituzioni in cui la si mette in pratica.
  3. Il momento dell’individuazione dell’uomo come soggetto-oggetto sociale, che riacquista in questa dimensione la totalità della sua funzione con il riconoscimento del gioco delle interazioni sociali.
È quindi evidente che la storia della psichiatria è la storia dell’atteggiamento della scienza (perciò della società di cui la scienza è espressione) nei confronti dell’abnorme. Ed è stata finora una storia di esclusione: in nome di una soggettività dell’uomo ogni volta riscoperta, si tornava a confermare la natura ambigua dell’abnorme; per il quale i giudizi "scientifici" non sono mai stati liberi dall’interferenza di "giudizi di valore". Ciò significa che ogni volta si tornava ad accomunare, in una nuova istituzione, malattia, vizio, miseria e povertà. Per questo l’analisi storica della malattia mentale e della sua scienza può chiarire il processo attraverso il quale, a cicli successivi, si è liberato il malato dall’istituzione in cui di volta in volta lo si identificava, per rinchiuderlo e rioggettivarlo in una istituzione successiva.
Dopo le varie tappe "liberatorie", il ciclo sembra ancora una volta compiuto: l’istituzione è tornata al suo carattere segregativo. La psichiatria ha perduto il suo oggetto, che continua faticosamente a costruire e che le continua a sfuggire, e si pone alla ricerca di una nuova istituzione che non sia più limitata fisicamente alla struttura spaziale del "manicomio" (v.).
In epoca di rivoluzione post-industriale, gli scienziati dell’alienazione, consorziatisi con gli studiosi delle scienze sociali, stanno organizzando un pool cibernetico dell’alienazione, a difesa dell’uomo e della sua malattia; andando alla ricerca di un nuovo campo di indagine in cui ritrovare il nuovo oggetto in una istituzione totalizzata che sarà ora l’intera società. (v. anche:. "Deviante").

Psicofarmaci

. Sotto questo nome vengono raggruppate tutte quelle sostanze ad azione psicotropa, che agiscono cioè sullo stato psichico e sul comportamento. L’era farmacologica comincia negli anni ’50 grazie alla scoperta di alcuni farmaci che, con la loro azione sedativa, avviano per chi sa approfittarne la possibilità di un rapporto prima inesistente col malato. Ma se l’uso del farmaco si limita soltanto a garantire le tranquillità dei reparti, l’unico risultato è un nuovo totale annientamento dei ricoverati attraverso l’immissione massiccia dei farmaci come elemento gravemente istituzionalizzante (v.: "Istituzionalizzazione"). In definitiva si può dire che gli psicofarmaci hanno avuto e hanno tuttora un’azione terapeutica sia sui pazienti che sugli psichiatri, nel senso che costringono questi ultimi a mutare radicalmente il loro atteggiamento pessimistico nei confronti della malattia mentale, e ad assumerne un altro che implichi il riconoscimento del malato come persona ancora esistente, con esigenze personali che vanno oltre le regole dell’istituzione che lo segrega.
L’uso indiscriminato dei farmaci nelle istituzioni ha portato alcuni autori a parlare di una nuova forma di "contenzione" (v.) chimica, nel senso che i farmaci possono appunto essere usati con l’unica finalità, decisamente antiterapeutica, di mantenere la calma nei manicomi.

Psicosi

. Sono sindromi cliniche che presentano una sintomatologia delirante da ricondurre a disturbi della coscienza o della personalità. Esse sono caratterizzate da un modificato rapporto con la realtà, quando questa realtà significhi non solo il mondo fisico che ci circonda ma anche il mondo psichico interiore del soggetto, il mondo nel quale e per il quale egli vive. Tale modificazione si rivela attraverso idee "sviate" (conseguenza dell’alterata assimilazione dei valori che legano l’Io al suo mondo) e idee "deliranti" (nelle quali il processo che assegna a tutti i fenomeni del mondo il loro significato e il loro grado di realtà viene sviato, sovvertito).
Una volta fatta la diagnosi, datale una veste clinica, applicata un’etichetta (schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, paranoia, eccetera), la definizione di "malato" diventa una realtà totalizzante che investe l’intera personalità dell’individuo. Ogni suo atto, gesto, pensiero rientrano in questa connotazione, come se il mondo in cui e di cui egli vive non continuasse a muoversi, a esistere e a interferire su di lui con la stessa forza ambigua e dissociante del suo pensiero dissociato.

Psicoterapia

. Merita questo nome ogni metodo di trattamento di disturbi psichici o psicosomatici che si serva di mezzi psicologici e che abbia come base il rapporto tra medico e malato. Alla psicoterapia appartengono quindi il colloquio in senso lato, la suggestione, l’ipnosi, il training autogeno, le terapie del comportamento, la rieducazione psicologica, eccetera. La "psicanalisi" (v.) fa parte della psicoterapia: e si può dire che ne è la componente più importante.
La società che determina i disagi, li traduce in bisogni e mette sul mercato i prodotti atti a soddisfarli, richiede sempre di più l’opera di psicoterapeuti. Tale opera è necessaria e insostituibile ma offre risultati modesti poiché le cause di disagio e di sofferenza rimangono immutate e tendono a intensificarsi. Dato l’aumento delle richieste, la psicoterapia è costretta a uscire dal rapporto duale medico-paziente e a interessarsi di dinamiche e cure familiari e di gruppo. Sembra che tali interventi diminuiscano gli attriti all’interno delle famiglie e dei gruppi e aumentino l’efficienza e la produttività dei soggetti che vi si sottopongono. Alcuni, dopo terapie di gruppo, si sposano; altri, dopo le terapie familiari, divorziano.
Si avvicinano i tempi delle grandi terapie di massa. La più moderna di queste è il gioco del calcio o, meglio, il tifo calcistico. Esso fa soffrire e godere le masse per avvenimenti che non le riguardano, fa dimenticare avvenimenti che invece le riguardano molto, permette di localizzare il nemico all’esterno (l’arbitro) e di identificarsi con un singolo (Pautasso, sei tutti noi) o con un gruppo (daje Lupi!). Per la psicanalisi il goal potrebbe simboleggiare la scena originaria dell’amplesso dei genitori ed essere vissuto o con orgasmo (identificazione con il supposto aggressore) o con sofferenza (identificazione con la supposta vittima). Tale psicoterapia di massa fa in modo che, dopo la catarsi domenicale, tutti corrano a casa e aprano il televisore per rivedere la partita e rivivere ancora la scena originaria (al rallentatore).
Il futuro della psicoterapia è di estrema importanza per la nostra vita. Col passare del tempo, infatti, da un lato le malattie mentali saranno assolutamente proibite, dall’altro diventeremo tutti "matti" (v.) senza accorgercene. Il futuro compito della psicoterapia sarà quello di sostituire il lavoro umano con la "ergoterapia" (v.), il tempo libero con la ludoterapia e l’amore con una sana attività erotica senza inibizioni. (Michele Risso).

Raptus

. Termine con il quale, in gergo scientifico recuperato anche dal linguaggio comune, si intende designare un atto improvviso e imprevedibile che esce dalla "norma" (v.) in senso antisociale. Di solito il raptus ha un carattere incomprensibile se preso come fenomeno a sé, mentre spesso risulta accessibile se restituito al contesto in cui si è manifestato. Con la parola raptus le istituzioni preposte a conservare l’ordine costituito tendono a codificare in termini di malattia situazioni che altrimenti metterebbero in discussione le norme e i valori su cui quell’ordine si fonda.

Reinserimento Sociale

. "Soluzione finale" della terapia psichiatrica che si prefigge di adattare l’irrecuperabile all’istituzione manicomiale (istituzionalizzazione interna), e il recuperabile alle istituzioni sociali (istituzionalizzazione esterna).

Reparti Aperti

. Reparti pseudo-manicomiali non soggetti alla "legge" (v.) sugli alienati. Pur essendo inseriti nello stesso complesso ospedaliero, sono rigidamente divisi dai reparti manicomiali e non comportano la "stigmatizzazione" (v.) tipica dell’internamento in ospedale psichiatrico. Vi hanno accesso i malati paganti o che dispongono di mutue privilegiate. Come nelle "case di cura" (v.), quando finiscono i soldi o la mutua non paga più, i degenti passano dai reparti aperti a quelli manicomiali e diventano, da "volontari", "coatti". Così, da un giorno all’altro, e per ragioni estranee alla malattia, uomini liberi vengono dichiarati « pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo », restando prigionieri dell’istituzione manicomiale.
I reparti aperti consentono anche il percorso inverso: cioè internati manicomiali possono passare, sempre per gli stessi motivi (una mutua disposta a pagare o il rinvenimento di fondi da parte del ricoverato), dallo status di malati coatti a quello di pazienti liberi.
Se da un lato l’esistenza dei reparti aperti consente a molti malati di recente ingresso di evitare la stigmatizzazione del manicomio (ma sempre su basi discriminanti), dall’altro consente anche ai medici di usufruire delle quote capitarie.

Sociale, Psichiatria

. Con il termine "psichiatria sociale" si intende ampliare il campo della psichiatria dal terreno strettamente medico-scientifico a quello sociologico. L’immissione del sociale in psichiatria segnerebbe l’inizio di un nuovo tipo di interpretazione della malattia mentale, in cui viene messo l’accento sui fattori sociali presenti nella determinazione e nella cristallizzazione della malattia. In realtà la psichiatria è sempre stata sociale, nel senso che se teoricamente ci si occupava della malattia in quanto stato morboso, praticamente nelle istituzioni in cui si esercita la psichiatria se ne sono sempre presi in considerazione soltanto gli aspetti sociali, come ad esempio la "pericolosità" (v.), l’imprevedibilità e l'oscenità. La nuova ondata sociale della psichiatria non è dunque che il capovolgimento positivo di un’ideologia, vissuta prima in negativo. Ma a questo punto occorre conoscere la natura delle forze sociali che premono sul malato, reale e potenziale. Esse non si limitano all’influenza dell’ambiente familiare e sociale sul malato e sulla malattia ma includono i valori del gruppo sociale in cui la malattia si manifesta e soprattutto i limiti di "norma" (v.) definiti da quel gruppo. Non si può infatti tenere conto soltanto dell’aspetto psicodinamico del sociale (come sembrano intendere i fondatori di questa nuova disciplina), tralasciando il peso dei rapporti di produzione in cui il malato è incluso, dato che proprio questo insieme di rapporti stabilisce di volta in volta i limiti di norma in base ai quali si etichettano gli stati morbosi.

Socioterapia

. Termine generico che comprende anche l’ergoterapia, la ludoterapia. eccetera. Teoricamente, un insieme di tecniche basate su interazioni di gruppo. Si tratterebbe cioè di terapie sociali miranti a risocializzare il malato mentale attraverso la sua partecipazione, più o meno sollecitata, a una serie di attività. Il paziente, abbandonato prima a se stesso come incurabile, viene coinvolto in attività lavorative o ricreative attraverso le quali si presume possa ricostruire la propria socialità. Praticamente, l’ergoterapia si traduce in uno sfruttamento dei malati che, con questo alibi, vengono chiamati a tenere in vita l’istituzione da cui sono segregati. Ciò avviene di solito facendoli lavorare ai vari servizi generali dell’istituto; il che significa per loro partecipare attivamente alla propria distruzione. In cambio ricevono compensi settimanali che non superano, nei migliori dei casi, qualche centinaio di lire.
Per quanto riguarda invece la lutoterapia, nel momento in cui essa viene rigidamente istituzionalizzata, anziché diventare uno stimolo all’interazione sociale si trasforma nella ripetizione stereotipata di un gioco cui i malati partecipano come fantocci nelle mani del terapeuta.

Stigmatizzazione

. « I greci, che sembra fossero molto versati nell’uso dei mezzi di comunicazione visiva, coniarono la parola "stigma" per indicare quei segni fisici che caratterizzano quel tanto di insolito e di criticabile della condizione morale di chi li possiede. Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo, e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato specialmente nei luoghi pubblici ». Così Erving Goffman definisce la parola.
Il concetto espresso dal termine stigma continua ancora a servire da strumento per la conferma di una diversità su cui si fondano le scienze umane. Continua cioè il processo di caratterizzazione di alcuni individui in base a segni distintivi particolari i quali, contemporaneamente, sanciscono l’appartenenza a una categoria definita e il giudizio negativo sulla categoria stessa.

Terapie Psichiatriche

. Sono di due tipi: terapie biologiche e "psicoterapia" (v.); le prime direttamente legate all’ideologia medica e a un’interpretazione organicistica della malattia, la seconda direttamente derivata dalle concezioni psicogenetiche. A queste si è aggiunta ora la terapia sociale (v. "Socioterapia") come conseguenza di una interpretazione sociogenetica dei disturbi mentali. In tutti e tre i casi si tende a enfatizzare di volta in volta un fattore diverso come responsabile della malattia mentale: il corpo (soma), la psiche o la società. Come se si trattasse di tre virus diversi che devono essere debellati con tecniche e strumenti diversi. Ma se l’uomo è corpo, psiche ed essere sociale, nessuna di queste interpretazioni presa a sé può rispondere al problema della malattia mentale e ogni risposta settoriale non può che servire a tranquillizzare il tecnico di fronte a un problema che non sa risolvere. Ciascuno interpreta la malattia a suo modo e agisce in conformità, costruendo statistiche sempre più precise per confermare la validità delle sue ipotesi.
In realtà, nel caso della malattia mentale ogni metodo terapeutico che faciliti il rapporto col paziente può essere positivo nel senso che facilita la comprensione del malato e della sua malattia. Ma ogni strumento terapeutico può anche essere negativo. Nel momento in cui nasce come ipotesi e tenta di rispondere direttamente ai bisogni del malato tenendone presente la soggettività, la terapia riesce a conservare un minimo di reciprocità nel rapporto tra medico e paziente; ma quando codifica e cristallizza i propri metodi come adatti a ogni singolo caso, non è più la terapia ad adeguarsi al caso ma il caso alla terapia. L’antiterapeuticità della terapia nasce nel momento in cui essa, attraverso l’imposizione e la violenza, impedisce il rapporto medico-paziente: quando cioè serve al medico come l’unica risposta sicura e possibile; e non al malato.

Test Mentali

. Metodi di esplorazione della psiche il cui scopo è, secondo una definizione tecnica, quello di « differenziare gli individui fra di loro ». I test si dividono in due grandi categorie: di efficienza intellettiva e proiettivi. I primi separano gli "intelligenti" dai "cretini" (v. "Imbecille") e assolvono quindi la propria funzione discriminante in quella classificazione fra superdotati, normodotati e ipodotati che serve ad alimentare le classi scolastiche differenziali. I secondi, detti anche test della personalità, pretendono invece di rendere obiettivamente evidenti quei settori della psiche che sfuggono al colloquio clinico, facilitandone l’esteriorizzazione attraverso le interpretazioni che il soggetto dà degli stimoli ambigui dei test. Uno fra i più noti è quello delle macchie di Rorschach.

Trentatre’

. (v. "Diagnosi").

Vortice Degli Inganni

. Espressione proposta da Erving Goffman ("Asylums", Einaudi 1968) per riassumere l’insieme di contingenze che portano abitualmente al ricovero in "manicomi" (v.). Si tratta per lo più di "denunce": i genitori che non tollerano le ribellioni di un figlio, il datore di lavoro che si lamenta per qualche stranezza del lavoratore, l’istituto che non può trattenere un minorenne per raggiunti limiti di età e che fornisce un’ambigua diagnosi psichiatrica onde facilitarne il passaggio a un’altra istituzione pronta a accoglierlo, una famiglia che non accetta la relazione di una ragazza con un uomo sposato. Simili denunce creano attorno a quello che si può definire il malato potenziale un clima di sospetto, inganno, insicurezza e ambiguità tale da indurlo a instaurare un rapporto dissociato con la realtà. Il vortice degli inganni inghiotte così il malato designato e lo porta al ricovero in manicomio dove il suo comportamento, fino a quel momento contraddittorio e ancora suscettibile di mutamenti, sarà congelato nella definizione della malattia.

Violenza Istituzionalizzata

. Termine con cui si usa riferirsi a una violenza esercitata sul singolo o sul gruppo allo scopo di mantenere, attraverso l’adeguamento alle regole specifiche di uno specifico settore, l’ordine costituito generale. La violenza istituzionalizzata è quella che si esercita in un’istituzione (scuola, caserma, carcere, manicomio eccetera) per mantenere, attraverso la serializzazione degli individui in essa contenuti, la funzionalità dell’istituzione al sistema generale di cui è espressione. Nella scuola, ad esempio, l’autoritarismo e la violenza hanno un doppio significato: sono il segno dell’impotenza del corpo insegnante a educare i giovani alla critica di una realtà che i giovani stessi devono contribuire a modificare; e, insieme, la finalità dell’istituzione scolastica che, all’interno del nostro sistema sociale, tende proprio a vietare ai giovani la capacità di critica della realtà, perché essa resti immutata.
Così il manicomio oltre a essere espressione dell’impotenza e del fallimento della psichiatria di fronte al problema del malato mentale, tende insieme ad assolvere, attraverso l’imposizione di regole violente, distruttive e antiterapeutiche, la sua funzione di luogo di segregazione e di eliminazione di ciò che contiene, in nome della tutela e della difesa di una norma che deve restare indiscussa. La specificità di ogni singola scienza servirebbe quindi ad avallare, sul piano tecnico, una violenza istituzionale che non troverebbe alcuna giustificazione sul piano morale e umano.